Calciobalilla.


Questa è una storia di periferia.
Una storia priva di un chiaro riferimento temporale, perché esistono territori, spazi, in cui il tempo sembra essersi fermato.
Non è nemmeno troppo chiaro né preciso quando si sia fermato. Il tempo. E’ più sensato pensare che si siano accumulati sentieri, storie, culture e poi ancora scoperte, architetture e quant’altro serva a creare una piccola cittadina.
Poi tutt’a un tratto stop.
Tutt’a un tratto ore, minuti e secondi decidono bruscamente di frenare. E di cristallizzarsi. Non esiste una spiegazione. O meglio, forse sono molti i motivi che sottendono l’arrestarsi del normale processo evolutivo di un luogo. La fine del boom economico, giunte comunali pigre, un’età media piuttosto elevata. Ma tant’è.
A Sailcazzodove il tempo si era fermato. E con nessuna intenzione di ripartire. Non si capisce neppure in che epoca si trovassero i personaggi di questa storia di periferia; sospesi tra la fine della guerra, di cui anziani pensionati nei dehors dei bar ancora parlavano tra rancore e commozione, ed il nuovo millennio, di cui si discorreva, avvertendone una minima parte, più per sentito dire che altro.
In questo scenario, non meglio precisato, Aldo ci sguazzava che era una meraviglia vederlo ed ascoltarlo. Un ragazzotto sulla trentina, anno più, anno meno, tutti perfettamente percepibili sulle rughe di un viso che sembrava volerti raccontare le mille difficoltà dalle quali usciva. Ne è esempio proprio il mistero che esisteva attorno alla sua vera età: nessuno in paese la conosceva, nemmeno lui.
Quando qualcuno voleva divertirsi, lì al bar in centro, dava una leggera gomitata all’amico vicino, si accostava ad Aldo e gli faceva: “Dì un po’, non mi ricordo mai…ma te quanti anni c’hai, già?” Sorridendo d’intesa verso il compagno di gag.
E Aldo, quasi di ritorno da un altro pianeta, scuoteva la testa, smetteva di fissare un punto sulla parete e confessava sempre alla stessa maniera: “Mah, ne avrò 30, forse 35. Non lo so, Mà non si ricorda mica l’anno, neanche il mese!” poi però una grinza gli segnava l’espressione e allora aggiungeva vanitoso: “Beh, però sappiamo per certo che son nato un 18! In questo modo posso festeggiare tante volte in un anno, non è poi così male!”
E giù a ridere, lì al bar.
A Sailcazzodove Aldo era conosciuto da tutti e quasi tutti gli volevano bene. Un po’ perché Aldo è un bravo tipo, il classico bonaccione che va d’accordo con tutti; un po’ perché lì al paese circolavano sempre le stesse voci sul suo conto.
“Quello lì, tanto bravo, troppo bravo. L’Aldo è un po’ tocco!” Insomma, i paesani erano convinti che fosse ritardato: niente di grave, per carità, solo un pochino e anche se si guardavano bene dal parlarne in sua presenza, beh, quell’Aldo lì, lui lo sapeva cosa la gente dicesse di lui, ma non ci aveva mai creduto! E aveva sempre lasciato che la gente lo pensasse alle sue spalle, perché in fin dei conti non gli importava poi molto di ciò che pensavano i suoi compaesani; erano tutti buoni con lui e questo era d’avanzo.
In aggiunta c’era poi la faccenda del Boss del paese, nata per gioco, per provocazione chissà quando, ma che ormai era entrata negli ingranaggi di Sailcazzodove. Ogni paese che si rispetti ha un suo capetto, uno che la gente riconosce per strada, uno che la gente saluta sempre e tratta con rispetto: uno come Aldo.
Lui ci macinava sopra a questa storia, tronfio ed impettito entrava al bar come all’Alimentari della Gina, dove spesso racimolava quelle Goleador di cui era ghiotto, così, aggratis, perché “qui controllo io che vada tutto tranquillo, Gina! Tu non ti devi preoccupare di niente.”
I maligni e i più invidiosi possono pensare che tutto il paese lo assecondasse, quasi come fosse un po’ il figlio di tutti e non di quella disgraziata dell’Alcolizzata, la madre, oramai ridotta a non avere più un nome proprio. Per tutti era l’Alcolizzata. Per qualcuno era la Stronza. Per Aldo, semplicemente Mà. Già, gli invidiosi si diceva, loro possono insinuare che i paesani assecondassero l’Aldo. Le cose credo stessero invece diversamente: Aldo era proprio il Boss. Il Capetto. Ci pensava lui.
A proposito dell’Alcolizzata, invece, si potrebbero spendere molte parole, la maggior parte delle quali terribilmente tristi e biasimevoli, forse alcune anche compassionevoli, perché in fin dei conti una donna, come un uomo, è anche e soprattutto i suoi guai. E’ anche e soprattutto la reazione ai guai, e questi ad onor del vero non sempre te li vai a cercare. Lei non se li era cercati, non in principio, sebbene con il tempo avesse sbagliato tutto ciò che comportasse una scelta.
Nata e cresciuta a Sailcazzodove, l’Alcolizzzata era fiorita in una famiglia normalissima: genitori proprietari di una ferramenta, lei figlia unica con buone possibilità per definirsi un futuro radioso, aveva invece scelto di seguire le orme di mamma e papà, aiutandoli in negozio fin dalla terza ragioneria, scuola che infatti aveva abbandonato. Poco meno che trentenne si era poi sposata con il Marito dell’Alcolizzata, personaggio misterioso proveniente da un paese poco più a nord di Sailcazzodove, con il quale avevano dato alla luce Aldo. Quando il pargolo si avvicinava al primo decennio di vita, la crisi nella coppia era ormai insanabile, viziata da silenzi e litigate furiose, indecifrabili latitanze del marito e pomeriggi interi attaccata alla bottiglia della madre. In pochi mesi il Marito dell’Alcolizzata si era dato alla macchia, scappando secondo alcune fonti con una giovane selvatica del suo paese, senza farsi mai più rivedere né da Aldo, né dall’Alcolizzata.
Questo fu l’inizio di un terribile rapporto tra i due ripudiati: la madre scaricò sul figlio le colpe dell’abbandono, accusandolo di non essere stato all’altezza del padre, il quale si sarebbe vergognato del figlio demente, scappando per fare salvo almeno l’onore. Il giovane Aldo, non capiva dove mai potesse aver sbagliato un essere in bilico tra la fanciullezza e l’adolescenza, si limitava a piangere in camera sua intere notti, spese dall’Alcolizzata, va da sé, a sgolarsi bottiglie di gin più o meno ricercato.
Aiutato un po’ dai nonni materni, un po’ dai vicini di casa, Aldo era riuscito a farsi uomo e diventare ciò a Sailcazzodove praticamente tutti amavano. Ma in parte compativano.
Il ragazzo era operaio nell’unica fabbrichetta di Sailcazzodove, una torrefazione di caffè che arrivava dal Sudamerica, la più classica delle conduzioni familiari che dà lavoro e pane ad una ventina di personaggi del paese. Il ragazzo ci lavorava da parecchi anni, fin da quando era uscito dalla scuola dell’obbligo: istituti nei quali non si sa quando fosse entrato, né quanto ci avesse messo per uscirci. All’inizio alla Chiccodicaffè s.r.l. aveva fatto qualche lavoretto in nero, poi via, via Aldo si era guadagnato la fiducia e la simpatia della famiglia proprietaria che quindi aveva deciso di assumerlo e non se ne era mai dovuta pentire, ad onor del vero. In più lui sapeva tutto sul caffè. Negli anni la sua passione per questi chicchi esotici era cresciuta a dismisura, tanto da sembrare una questione scritta nel suo dna, una cosa atavica o chessò io. Fu un colpo di fulmine per quel profumo irresistibilmente forestiero, così lontano dalla pianura dalla quale veniva lui, bicicletta sotto il culo e via.
Aldo non amava viaggiare, non lo aveva mai fatto se si escludono tre o quattro gite in colonia quando era più piccolo. I ricordi di quei viaggi al mare ed in montagna erano sempre molto vivi, ma da quando il padre se n’era andato, lui non si era più mosso da Sailcazzodove e i motivi erano disparati, alcuni dei quali evidentemente riguardavano la madre e la sua solitudine.
In realtà chi lo conosceva bene giura che Aldo avesse un’inspiegabile inquietudine latente al solo pensiero di attraversare i confini del paese, che giocoforza esercitava quella che sembra una forza centripeta verso Piazza Farinelli, il centro del Paese.
Lui non sapeva spiegare cosa fosse e alla gente del Paese poco importava di che si trattasse, se c’era una cosa che pochi facevano, erano discorsi seri e profondi con Aldo, perché a nessuno importa il parere di un tocco in certi frangenti.
E’ sufficiente che ti faccia ridere. Sorridere. O quantomeno divertire.
Effettivamente solo la cara Gina, la matrona dell’Alimentari, nel passato aveva tentato di scoprire cosa passasse nella testa del suo giovane protettore, chiedendo: “Perché non ti schiodi da questo porcile, Aldo?? Sei giovane, sei sveglio, io lo so. Vattene. Ricomincia da un’altra parte. Scaccia i tuoi scheletri”!
Già, gli scheletri! Aldo aveva fatto spallucce e aveva respinto l’invito, giustificandosi: “Ma Gina, se me ne vado io, chi ti controlla qui l’ambaradan”!?
E poi via, sgasando quel suo Peugeot scassato. La Aldomobile meriterebbe una mezza giornata per essere descritta, perché era un gioiello nel suo genere: telaio Rosso-ex-fiammante, portiera lato guidatore bianco-immacolato, cofano verde-scusaAldohotrovatosoloquesto. Era stata un’occasione ai tempi, un seconda-terza mano portata via ad un ottimo prezzo. Il motore non era per nulla male e non aveva mai dato grossi problemi.
In Paese quando si sentiva il rombo del Peugeot di Aldo, la gente esclamava: “Arriva il tricolore”!!
Il che calzava perfettamente con le scelte cromatiche del suo carrozziere, ma al tempo stesso aveva origini ancor più passate e cioè nella fantomatica partecipazione di Aldo ad un Campionato Italiano di calciobalilla.
Sì, proprio calciobalilla. Già, perché tutto si può omettere su questo delizioso personaggio, tranne il fatto che fosse effettivamente un fuoriclasse del calciobalilla! Un predestinato!
Uno di quelli che: “Ne nasce uno ogni cinquant’anni così!”
In Paese non aveva rivali. Al bar batteva tutti senza sforzo e quando c’erano i tornei a coppie, la gente faceva a gara per giocare con lui, perché la vittoria era in tasca. Quando si parlava di calciobalilla lì in Paese, si finiva continuamente per parlare di Aldo, i ragazzini erano sempre increduli quando lo vedevano giocare ed ogni volta che si aggirava dalle parti della saletta dello sport, lo pompavano. Lo pompavano di brutto perché mostrasse, a chi ancora non lo conosceva, il suo marchio di fabbrica. Il suo segno distintivo.
Il gol in pallonetto dall’esterno di difesa!
Ed in ogni occasione erano occhi sbarrati e commenti increduli. La scena era sempre la stessa, coi ragazzini ed insistere e lui a giocare la parte di quello che non voleva essere disturbato. Poi dopo qualche minuto, quando l’attenzione dell’intero bar era focalizzata su di lui…eccolo che accettava, fingendo di farlo solo per essere gentile con chi ancora non l’aveva visto.
Allora si sfilava la giacca di dosso, si sistemava i capelli e si rimboccava le maniche fino su ai bicipiti, che quei manicotti alle volte sembravano lacci emostatici tanto erano stretti su in cima. Di nuovo i capelli, sistematina teatrale al pacco, come aveva visto fare in tv e poi metteva la cinquecento lire sull’unghia del pollice, tenendola in equilibrio con l’indice. La pressione di quest’ultimo faceva da contraltare alla spinta del pollice verso l’alto e quando i due arti ne avevano avuto a sufficienza, scaraventavano la moneta in alto in una piroetta nauseante, a cui metteva fine in parte la forza di gravità e per il resto Aldo, che coglieva al volo lo spicciolo e con un fulmineo movimento la inseriva nel calciobalilla.
Una volta scelta la pallina che più ispirava, il destino era compiuto e per i successivi venti, venticinque secondi la protagonista della vita del Paese sarebbe stata quella sfera di plastica bianca, segnata irrimediabilmente dalle violente scalciate di omini blu e rossi.
Quei secondi sembravano giorni.
Il portiere rimetteva il boccio, indirizzandolo all’esterno sinistro di difesa.
Buono lo stop, alzava la testa e si guardava intorno. Vedendo i compagni marcati, denunciava il poco movimento delle punte, impalate nel vero senso della parola e capiva che sarebbe stato lui a prendersi la responsabilità.
Con un preciso e vellutato colpo di esterno spediva la palla verso la carambola, con la giusta forza perché questa venisse proiettata in aria di pochi centimetri dal bordo obliquo del campo.
A quel punto il più difficile era andato, ancora un’occhiata ad eventuali compagni meglio piazzati, ma la situazione era simile a pochi secondi prima: totale assenza di movimento.
Rimaneva da compiere l’unica scelta possibile, laddove i campioni anche nelle situazioni di emergenza hanno un’ultima carta da giocare. Appena la pallina iniziava la sua discesa, l’esterno sinistro caricava il pallonetto, ruotando sul suo asse di un paio di centimetri, tre più probabilmente, ed arrivava infine l’impatto con la sfera.
La gittata assumeva connotazioni epico-romantiche. Lì al bar nessuno fiatava e ci sono ragazzi pronti a giurare che in quei momenti anche la tv sospendesse l’audio per permettere a tutti di ascoltare la biglia squarciare l’atmosfera sopra il terreno di gioco.
Il movimento delle ciglia scandiva la discesa della pallina che s’insaccava alle spalle di un inerme ed incolpevole portiere, la cui unica speranza era quella che Aldo lo centrasse sul naso, avendo le braccia infilate in un’asta di metallo. Pover’uomo.
E a quel punto era l’ovazione dell’intero bar a stracciare la solita routine del Paese.
La saletta impazziva di eccitazione e Aldo si esibiva come al solito in generosi inchini in tutte le direzioni della stanza.
Fu proprio in una di queste occasioni che si accorse dei due stranieri, così venivano chiamati senza distinzione tutti quelli esterni a Sailcazzodove, appoggiati al bancone del bar, bibita in mano e grossi sorrisi compiaciuti. La coppia di ragazzi era senza dubbio nuova del paese, più probabilmente solamente di passaggio, potevano avere una trentina d’anni e magari neppure loro sapevano con esattezza la loro età.
Aldo, ancora disinibito dalla circostanza di notorietà ed entusiasmo, fece un plastico gesto di approvazione nei loro confronti, il che, di fatto, li obbligò a posare i bicchieri e lasciarsi andare ad un peraltro sincero applauso; farcito anche da un paio di fischi del ragazzo.
Questo fu il primo incontro con Marco e Teresa, una coppia di città, giunta in paese per stare vicino alla nonna di lui, malata da tempo e di fatto rappresentò il principio di un intreccio di sintonie decisamente coinvolgente per i tre. Va da sé che i due forestieri nutrirono fin dall’inizio una simpatia sfrenata per Aldo e d’altra parte non poteva essere altrimenti viste le premesse! Il neonato trio visse quasi inseparabile un periodo molto intenso per il giovane senza età, il quale non era troppo abituato ad aprirsi con la gente, né rappresentava una spalla plausibile su cui poggiarsi nei momenti di debolezza, ancora secondo quelli del Paese. Con Marco e Teresa era diverso. Sebbene tutto Sailcazzodove amasse il suo Boss, frequentando la coppia Aldo scoprì sfaccettature emozionali nuove. Diverse. Piacevoli e stimolanti. “Forse questo è quello che chiamano amicizia”. Pensava lui correndo oltre: “Loro sono i miei migliori amici! Questo è”!
Fu così che il Tricolore di calciobalilla insegnò ai due a giocare di astuzia e trucchetti, non potendo pretendere di tramandare loro la sua tecnica sopraffina: “Questo vi basta e vi avanza!” scherzava sempre e fu allo stesso modo che i due divennero nuovi beniamini al bar, come all’Alimentari; braccio destro e braccio sinistro del protettore, si guadagnavano vizietti vari dalla Gina in cambio di un’occhiata in giro.
Tutto sommato però, ancora non erano del tutto convinti che il ragazzo potesse non avere un’età: non si capacitavano di come potesse un individuo non sapere in che anno fosse nato, né tanto meno non saperlo sua madre! Questo ad onor del vero fino a quando non videro di sfuggita l’Alcolizzata in un frizzante pomeriggio soleggiato: mise il naso fuori dall’uscio non si sa bene per quale motivo, Aldo aveva spiegato loro che Mà ogni tanto si concedeva un’occhiata fuori e lui aveva sempre pensato che lo facesse caso mai il padre avesse deciso di tornare. Forse la fiammella della speranza alloggiava ancora da qualche parte, in quello che restava del cervello della madre. Quel giorno, si diceva, l’Alcolizzata aprì la porta di casa e ne uscì una figura debilitata, corrosa dall’alcol e dal rancore, con gli occhi scavati in occhiaie tendenti al viola, i capelli crespi ed un’andatura incerta e nervosa. Aveva dato uno sguardo in giro, non aveva degnato nessuno della sua attenzione ed era rientrata in casa. In seguito tentarono anche di spingere Aldo verso l’anagrafe: “Lì avranno tutti i tuoi dati, potrai scoprire quanti anni hai”, spiegarono, sentendosi rispondere che anche l’avesse fatto, non sarebbe mica cambiato nulla: per cui tanto valeva non perdere tempo e fare una partitina al calciobalilla.
Un giorno Marco era andato dalla nonna e Teresa ed Aldo avevano deciso di fare una scampagnata nei vicini campi; trovato un comodo rifugio soleggiato si erano sdraiati ed era stato l’inizio di una piacevole chiacchierata, uno scambio di confessioni su esperienze passate e progetti futuri. Aldo si era dimostrato fin da subito molto interessato a ciò che potesse aver combinato fino a quel momento una ragazza di città e le parole di Teresa scorrevano fluide, interrotte solo dalle domande del suo interlocutore, avido di particolari e di maggior chiarezza. Ultimata la confessione, la ragazza pretese che toccasse a lei ora ascoltare una storia interessante e aveva quindi esortato Aldo a rivelare i suoi segreti.
“Io non ho grossi segreti” si era giustificato Aldo “sono nato e cresciuto qui, prendendomi poche vacanze dalla vita del paese, al massimo quando ero più piccolino i miei mi mandavano in colonia. A dire il vero non ho neanche dei bei ricordi di quel gruppo di pesti che spesso mi prendevano in giro”.
“I bambini sanno essere delle vere merde!” lo interruppe Teresa “anche io un anno sono stata in colonia, ho pianto tutto il tempo e i miei sono dovuti tornare a prendermi! aahaha”
Aldo la guardava stregato, chiedendosi perché non ci fossero delle ragazze come lei, lì al paese; si diceva che forse la vita sarebbe stata migliore con un po’ di compagnia femminile, oltre a quella dell’Alcolizzata, s’intende. Rise anche lui all’idea di una bimba in colonia che frigna senza sosta, poi continuò il suo racconto, per la verità con un tono da comunità di recupero. Teresa, infatti lo bloccò ancora, facendogli il verso: “Mi chiamo Aldo, ho un po’ di anni e da tre mesi non bevo più….ahahaha, dai su, cerca di essere un po’ più brioso! Mica ti analizzo!”
E di nuovo giù a ridere insieme.
A quel punto il paziente confidò che dopo essersi trascinato per anni sui banchi di scuola, aveva iniziato a lavorare presso una torrefazione di caffè, lì al paese. L’unica fabbrica con un discreto nome e ammise senza troppe remore: “Vedi, io so tutto sul caffè!”
Teresa aveva sgranato gli occhi, per manifestare il suo stupore e con un impercettibile segno del capo aveva esortato Aldo a continuare; dal canto suo il ragazzo aveva interpretato quell’atteggiamento quasi come una sfida, dunque incalzò la malcapitata senza pietà!
“Dico davvero!” esordì “So praticamente tutto sui chicchi e sulla storia del caffè, per esempio quello che c’è in commercio è principalmente il discendente di due generi di piante: la Coffea Arabica e la Coffea Canephora. Tu le conoscerai come Arabica e Robusta, ma quelli sono i loro nomi scientifici”. Aldo s’illuminava quando parlava del suo lavoro, ma più in generale del caffè; si poteva capire senza il minimo dubbio che adorava tutto ciò che girava intorno a quelle piante così esotiche, ma al tempo stesso marchio di vera italianità. Anche Teresa dopo manciate di secondi era diventata vittima del fascino dei suoi racconti.
E lui incalzava: “Si può dire che i trequarti della produzione mondiale riguardano l’Arabica, che ha un chicco verde, verdeazzurro ed una forma ovale, mentre la parte restante è la Robusta, che come puoi ben capire dal nome, è una piante più resistente!”
Teresa pareva interessata e divertita ed Aldo non aveva nessuna difficoltà a continuare la sua attenta e lucida disanima: “Devi sapere che le due qualità hanno composizioni differenti e… bla bla bla…” Sparava notizie con una precisione effettivamente impressionante, tanto che Teresa alle volta disconnetteva l’attenzione e partiva per una tangente di pensieri e ragionamenti che riguardavano il suo strampalato interlocutore, una vera e propria enciclopedica della caffeina! Una volta rinvenuta: “bla bla bla…la composizione del caffè si modifica molto con la torrefazione che è poi quel processo termico che tosta i chicchi, facendoli diventare pronti per essere macinati e…bla bla bla..”
“Ok, ok, ok…mi hai convinta!” Lo stoppò Teresa: “ti riconosco ufficialmente maggior esperto caffettaro del pianeta! ahahah…però sono un po’ preoccupata per la tua salute: quanti ne bevi al giorno? Anche se in effetti non sembri comunque un tipo troppo nervoso!” Tenne a precisare per non sembrare troppo indisponente.
“Mai bevuto uno in vita mia!” Esclamò lui con un tono timido e quasi giustificatorio.
Teresa si lasciò andare ad una sonora risata, interrotta da un: “Dai, scemo!” alla fine del quale si rese conto che Aldo non stava affatto ridendo, quindi aggiunse: “Non dirai mica sul serio?!”
“Non ne ho mai bevuto uno!” Ripeté Aldo. “Non ho la minima idea di che gusto abbia; quello che so è quello che leggo, o quello che mi dice la gente quando chiedo loro che gusto abbia il caffè.” Disse facendo spallucce e scuotendo la testa. Teresa lo osservava incredula, aggrottando le sopracciglia e reclinando leggermente il capo all’indietro, come a prendere le distanze da qualcosa di quasi inconcepibile per lei. Allora lui puntualizzò: “ Pensaci bene! Che gusto ha il caffè?” Accompagnò la domanda con un ampio gesto del braccio, indirizzando la mano in direzione di un’imbarazzata Teresa.
“Nessuno sa rispondermi una roba diversa da: beh, il caffè sa di caffè! Che domande sono!?” Attaccò un po’ seccato. “Ma il gusto è gusto, il dolce è dolce, l’amaro è amaro. Se mangi una caramella mica dici che sa di caramella, dirai che è dolce, forse aromatizzata a qualche frutto o menta o chessò io!” La chiave di lettura non pareva essere campata per aria.
“Quindi” fece alzando l’indice “leggo che ha un gusto piuttosto amaro, decisamente tostato e aromatico in alcune specialità. E’ un sapore invadente, decisamente impegnativo che spesso viene mascherato con chili di zucchero dai più; che poi si dice siano anche i più ignoranti, perché annullano il vero gusto, ma qui non mi permetto di giudicare!” Poi tirò il fiato e concluse: “Ah, pare anche che faccia andare in bagno! Ahahaha…
Teresa era senza parole. Non capiva come fosse possibile che un personaggio come quello lì esistesse davvero, rintanato in questo buco di paese. Allora domandò: “Senti un po’, ma non hai mai avuto la curiosità di provare? Di sentire che maledetto gusto avesse ‘sto caffè?”
“No!” rispose fermo Aldo.
“Ma perché?” incalzava Teresa. “Perché non provare?”
Aldo fece un bel respiro, rivolse lo sguardo verso un punto qualunque del cielo e ammise: “Vedi, sembrerà infantile. Anche patetico forse, ma l’ultima volta che ho visto mio padre, da bambino, lui disse: “esco a bere un caffè al bar!” Non l’abbiamo mai più rivisto.”
Fece una piccola pausa, poi aggiunse: “Con il tempo ho scoperto che normalmente la scusa ufficiale è quella delle sigarette. Mio padre almeno è stato originale. Vedi, io allora non ne bevevo ancora di caffè, ero troppo piccolo; da quel momento mi sono ripromesso che non lo avrei mai fatto. Né berne uno, né berne uno per scappare dalla mia famiglia”.
In quel momento Teresa fu pervasa da una sensazione di tenerezza, nei confronti di quello che era un esemplare più unico che raro; nella sua breve permanenza a Sailcazzodove, lo aveva conosciuto sufficientemente bene per capire che tipo di persona fosse, un genuino e a suo modo geniale essere vivente che meritava molto più di quello che aveva. Così si decise.
“Aldo, è ora di voltare pagina da tutto. Te ne devi andare da qui. Devi mollare sta gente, sta vita e venire via!” Disse decisa.
Scuotendo la testa Aldo sembrava non voler rispondere, forse cercava le parole giuste, poi provò: “Teresa, dove vuoi che vada? Io sono un tipo da paese, ho il mio lavoro, le mie cosine. E poi anche se non ci ho mai creduto, la gente qui pensa che sia un po’ tocco: magari hanno pure ragione loro. Dove posso andare?” chiese quasi retoricamente.
“Dovunque tu voglia. Vieni in città con noi, da lì ripartirai, riuscirai a crearti la vita che meriti”. Disse con il cuore in mano. Qualche secondo dopo, non ricevendo risposta aggiunse: “Guarda, lo conosci Bob Dylan? Il menestrello?”
Aldo scosse il capo in senso negativo.
“Quando voglio pensare a qualcosa d’importante lo ascolto sempre, perché lui ha sempre la risposta: come direbbe lui, la risposta vola via nel vento”. E dicendo così, prese il walkman porgendolo ad Aldo. “Tieni, prova ad ascoltare!”
Presero una cuffia a testa, lei schiacciò il tasto Play e i diffusori urlarono: …and what did you hear, my blue-eyed son? And what did you hear my darling young one? Così Teresa spiegò che quella era una delle sue preferite: A hard rain’s a-gonna fall.
Si dice che alcuni suoni riescano a penetrare nell’anima delle persone, che litanie o versi o anche solo lamenti possano stuzzicare leggi universali in grado di svegliare determinati individui, innalzarli a stati mentali paralleli, o cosa. Più o meno così fu per Aldo. Un vero e proprio scoppolone che lo stordì dapprima, disincantandolo poi.
“Questa canzone è bellissima!” disse. “Sai, forse hai ragione. Forse dovrei davvero partire. Ci penserò in questi giorni. Te lo prometto”. E si lasciò andare all’indietro, godendosi numerosi pezzi di quel Dylan sconosciuto.
I giorni successivi furono un’altalena emozionale, un ottovolante di pensieri. Rimuginava sulla sua vita, sul tempo trascorso al Paese, sulla madre, sul padre. Sulla Gina e sui ragazzi del bar. Sul caffè. Ed il nastro della cassetta che Teresa gli aveva regalato si consumava avanti e indietro sul quella canzone; cercava di imparare le parole, o quello che di esse capiva, di ripetere i suoni. E quelle vibrazioni sonore lo liberavano dai pesi di una vita improvvisamente infelice.
Una sera piovosa Aldo respirava aria nuova, aria fresca. L’aver incontrato Teresa e Marco era stata la cosa più importante che gli fosse mai capitata, l’aver condiviso con loro così tanto in così poco tempo gli era sembrata una cosa surreale, ma talmente bella che la commozione gli impediva di frenare le lacrime che iniziavano a disegnare traiettorie imprevedibili sulle sue guance. Guidava per le vie periferiche di Sailcazzodove, con il finestrino aperto, nonostante la copiosa pioggia e cantava a squarciagola quel poetico lamento che Teresa gli aveva permesso di conoscere. Questo Bob Dylan doveva proprio essere uno in gamba, pensava Aldo.
“Deve essere anche lui un Boss lì dalle sue parti!” pensava ad alta voce “d’ora in avanti sarò Aldo Dylan! ahahah…..”
Sarebbe andato a casa, avrebbe raccattato la sua roba, i vestiti preferiti, qualche rivista, le foto scattate giù al bar, soprattutto quelle con le coppe vinte al calciobalilla e poi via. Aveva maturato la consapevolezza che doveva partire, avrebbe visto nuove realtà e conosciuto gente interessante e strana; forse un giorno avrebbe potuto tornare al paese e raccontare dei suoi viaggi, delle sue esperienze e la gente l’avrebbe ammirato ancora di più. Stava pensando a cosa fare con Mà, se salutarla o lasciarla annegare anche quella notte nel suo gin, raccogliere bottiglie da terra, esaminandone i fondi, alla ricerca di qualche ultima goccia d’illusione e perdizione. Anni luce da una felicità mai più incontrata. Aldo negli anni era cresciuto tra insulti, porcate sputate in faccia da sua madre e qualche schiaffo sul muso, ma non l’aveva mai odiata per questo. Quello che non aveva mai digerito era il fatto che lei si fosse arresa. Arresa agli eventi, arresa al cospetto di una vita che forse non era stata gentile con lei, ma nella quale ognuno ha il fottuto dovere di impegnarsi a cercare la felicità.
Questo pensava Aldo.
Per questo ora si era convinto a partire. Ora sentiva che la sua felicità lì al paese si stava esaurendo, l’avrebbe sentita sempre più lontana ora che aveva conosciuto Teresa e Marco; sapeva anche che per lei provava qualcosa di strano, che mai aveva avvertito prima. “Sarò anche tardo, ma so cosa sono queste farfalle nella pancia! So perché quando lei è gentile con me il cuore mi accelera come quando vinco i tornei giù al bar” si diceva allo specchio “ma Teresa è di Marco. E Marco e Teresa sono miei amici!”
Ad Aldo questo bastava. Lo faceva sentire vivo, pieno. Normale. Sarebbe partito con loro e poi avrebbe cercato una sua strada, non avrebbe voltato le spalle ai desideri, ai propri bisogni, offrendo loro fallaci speranze annegate in fiumi di alcol come sua madre. “E’ nostro dovere essere felici, provare ad esserlo” catechizzando il suo riflesso allo specchio con l’indice, con sguardo severo e allora si parte, Mà se ne farà una ragione…il giorno che si accorgerà che non ci sono più!”
La macchina correva veloce sui riflessi bagnati del paesaggio notturno; il silenzio di questo paesino sperduto, impastato dal ritmo della pioggia, veniva squarciato dai giri stonati del motore della Aldomobile e dalle note di questo nuovo cantante appena conosciuto. Il finestrino sempre spalancato; il diluvio penetrava nei vestiti e nei sedili, Aldo la viveva come la purificazione dell’acqua: “Porta via il mio passato, ripulisci i cattivi ricordi…iz a ard raiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiins a gonna follllll…” Il piede pesante sull’acceleratore, il cemento degli edifici alle spalle, solo colline, prati ed alberi intorno alla sua corsa liberatoria, verso una nuova essenza, nella speranza di una nuova realtà; le sporadiche e solitarie lacrime di poco prima, si erano trasformate in un pianto copioso, uno sfogo singhiozzante che gli riempiva gli occhi, come se non ci fosse il parabrezza a ripararlo dall’acquazzone. Alzò ancora il volume, le mediocri casse distorcevano le note di quella canzone che sembrava scritta per lui e per quel momento, ma Aldo copriva il ritornello con la sua voce, con suoni che cercava si avvicinassero il più possibile alla pronuncia originale. Il rettilineo stava finendo, la curva verso sinistra si avvicinava veloce, ma la strada era completamente allagata, appena sterzò il volante, la macchina sfuggì alla traiettoria, subendo il corteggiamento della forza centrifuga e sfuggendo all’attrito; il veicolo schizzò come la pallina del calciobalilla verso il guard rail, subendo una carambola impazzita verso il lato opposto della carreggiata e poi ancora in qua. La Aldomobile perse aderenza ed equilibrio e volteggiò su se stessa, ballerina di lamiera, fino ad arrestare la sua fuga in un nuovo rettilineo. Si era fermata. Si era fermato il motore. Il Menestrello non si era fermato, Aldo riconosceva la sua voce, ma si stava affievolendo sempre più, si chiese perché il cantante si stesse allontanando, poi comprese che non era Dylan, ma lui che stava abbandonando la scena e sussurrando iz a ard raiiiiiiiins a gonna folllll si spense in un sorriso liberatorio.

2 commenti:

giulia ha detto...

No Fede, mi ero commossa. E mi ero affezionata ad Aldo.
Non doveva finire così.

Anonimo ha detto...

adoro il calcio balilla bel racconto!!!

 

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