Un vento caldo

 


C’è quel vento caldo, quando la gran parte del giorno è trascorsa, che ti lambisce la pelle, lasciandoti solo le tracce del sale e che ti asciuga il sudore fuoriuscito dai pori, a bilanciare l’eccessiva temperatura corporea.

C’è quel vento caldo, che in un paradosso tutto estivo, ti fa sembrare il sole più sopportabile e trasporta profumi ed odori di un mediterraneo accogliente e di colline ancora verdissime, nonostante tutto. 

C’è quel vento caldo che sa di estate e ha il sapore della vacanza (o delle ferie, come ormai le chiamiamo da quando ci siamo fatti grandi) e di un tempo schizofrenico che rallenta e poi di colpo accelera, lasciandoti l'illusione di poterlo controllare.

Ti trovi a sognare. 

Nei panni di un altro, ma di un altro tu. 

Che avrebbe potuto. 

Che non c’è mai stato o forse che c’è, lì, come una parte del tutto.

C’è quel vento caldo che ti rasserena e ti scioglie i nodi, nonostante questo dannato mondo impazzito, che non capisci. 

“Più” o “ancora” sono le estremità del pendolo che scandisce il perpetuo moto quotidiano.

C’è quel vento caldo foriero di piacere, che ti fa distogliere lo sguardo dall’orizzonte e chiudere gli occhi per un momento. 

Le immagini scorrono via veloci come una bobina senza controllo, con un fruscío in sottofondo. 

Dall’adolescenza alla pensione, passando per la prima sigaretta e per i moniti che accenni a due pupe che galoppano verso l’adolescenza. Ci aspettiamo sempre che il meglio debba ancora venire, noi inguaribili romantici, con contorni non necessariamente convenzionali, noti o sperati. 

Come in un realismo magico, auspichi che il quotidiano si misceli con il fantastico, pronto a dissimulare la sorpresa e ad accettarne le conseguenze con naturalezza. Le somme si tireranno prima o dopo, ma il tempo come questo sedimenta bene nel profondo del cuore.

Non torneranno più e, dunque, muteranno forma, condizioni, regole del gioco e modi di dimostrare affetto.

Non torneranno più, perché saranno sempre diversi e lo dovremo accettare. E lo sapremo accettare.

Non torneranno più, ma speriamo che tornino.


Fin dal momento in cui entrò nella stanza, Ursula si sentì sopraffatta dalla maturità di suo figlio, dalla sua aura di padronanza, dal bagliore di autorità che irradiava la sua pelle. Si meravigliò che fosse così bene informato. 

"Lei sa bene che sono indovino" scherzò lui. 

E aggiunse seriamente: "Questa mattina, quando mi stavano portando qui, ho avuto l'impressione di essere già passato per tutte queste cose". 

In realtà, mentre la folla tumultuava al suo passaggio, lui era assorto nei suoi pensieri, stupito di quanto era invecchiato in un anno il villaggio. I mandorli avevano le foglie rotte. Le case pitturate di azzurro, ripitturate di rosso e poi tornate a pitturare di azzurro, avevano finito per assumere una tinta indefinibile.

"Cosa ti aspettavi?" sospirò Ursula. "Il tempo passa."

"Così è" ammise Aureliano, "ma non tanto. "

In questo modo, la visita da tanto tempo attesa, per la quale ambedue avevano preparato le domande e perfino previsto le risposte, fu di nuovo la conversazione quotidiana di sempre. 


Cent'anni di solitudine - Gabriel Garcìa Màrquez



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