Una musica può fare.


Non ho idea di quando sia ufficialmente finita la mia gioventù. Non riesco a scovare un giorno, un momento, un evento od al più un periodo in cui ho ammainato le vele ed accettato di fermarmi.
Immagino lo sia, per carità. Sicuramente molto spesso mi illudo di no. 
Chiudo gli occhi e sento ancora la musica altissima, distorta dall'eccessivo volume che le casse di una qualche festa - ai tempi del liceo - non sopportano
Poche menate: chitarra, basso e batteria. Rock, grunge...il punk! La vodka di pessima qualità, la giacca sgualcita aperta, perché non faceva mai troppo freddo. I jeans strappati e le magliette.
Perché per me, la vera giovinezza son quegli anni lì. Quando aspetti i diciotto. Quando li hai superati da un niente. E niente è veramente cambiato. Quando ti incazzi con un brufolo, quando ti senti adulto. Quando senti che dentro di te sta cambiando tanto e lo senti perché avverti un bollore che ti scotta e non ti fa stare fermo. Ed un giorno sei intrattabile, inespresso ed incompreso ed il giorno dopo...pure.
Nel pieno della mia giovinezza, il grunge era sul suo viale del tramonto, il meglio lo aveva già dato probabilmente; aveva gridato la sua rabbia, il suo malessere. Il disagio di tutti noi, più o meno ragazzetti.
A dirla tutta, poi, in quegli anni, la mia concentrazione era quasi interamente assorbita dall'esplorazione del cantautorato italiano; mi sfogavo contorcendomi su di un testo malinconico di De Gregori o studiando De André. Al più, affidavo il mio dissenso al Finardi di Musica ribelle piuttosto che prendere a pugni l’armadio in camera, confondendo i tonfi con la voce di Kurt Cobain, o Eddie Vedder. 
Ciò non toglie, però, che il contorno in cui cresci, si inerpica su per il tuo sistema nervoso. Entra dai piedi delle sneakers sudicie e ti si infila in testa. E lì rimane. Lì resta, latente. Perché ciò che sei oggi è soprattutto gli occhi che hai incrociato in quel tempo. Le bocche che hai osservato, bramato. I pugni che hai preso, quei pochi che hai dato. Gli amici che pensavi avresti avuto per sempre al tuo fianco, le lotte che ti sembravano sacrosante. Le canne, la dissimulazione, l'amore che ti scoppia nel petto, le delusioni che ti sembrano insormontabili. La fine del mondo, su cui oggi ridi. Il prendere sotto gamba, su cui oggi cristoni. La carne che iniziavi ad annusare, a leccare a fare tua. Le corse, le fughe i libri, i pleid in montagna e la filosofia. Tutto questo - ed un'infinità di altro - ha una colonna sonora precisa e la mia sa di sporco e di sudore e di amplificatori. Di casse tirate al massimo e di amore assoluto per la musica, senza aver mai saputo suonare neanche un cazzo di triangolo. I Nirvana ed i Pearl Jam. Ma anche gli Smashing, Stone Temple Pilots e Soundgarden. Oppure The President of the USA, i Green Day, NOFX, Pennywise, Offspring.
La festa di natale a scuola, con quelli di quinta che suonano. Le prime sbronze da vomitare l'anima e l'ansia per la versione di latino. Od il compito di fisica.
E' questo che ti porti dentro, è questo che ti ha cresciuto e coccolato. E plasmato. 
Anche per tutto questo, la morte di Chris Cornell ti stordisce più del razionale. Perché non c'è un fottuto niente di razionale nel sognare ad occhi aperti un pomeriggio di ottobre di (su per giù) venti (!) anni fa, al solo sentire dieci note di una canzone. Avvertendone l'angoscia alla bocca dello stomaco per le menate o pensando ancora adesso "seriamente, cosa farò da grande?!"
Non è assennato ricordare quell'inquietudine, o percepire l'attesa per quella festa del sabato sera che viene, eppure è tremendamente bello e romantico. Ed è un peccato che la forza con cui capita sia direttamente proporzionale alla delusione con cui ti investono alcune notizie. Perché in fin dei conti tornare ad essere quel ragazzetto che voleva opporsi alla merda che gli arrivava in faccia è un esercizio che dovremmo fare più spesso.
Quello con la camicia di flanella e la t-shirt slabbrata che se cerco bene, sono sicuro ancora troverei in fondo a qualche cassetto: cimelio dell'epoca.
Dovrei custodirla per quando le mie figlie ascolteranno la loro musica ribelle e mi manderanno a stendere, dicendomi che non capisco niente.
Spero di ricordarmi questa cosa che scrivo.
E di riderci sopra.

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