Questa è la domanda che più sovente mi sono sentito rivolgere dai miei amici, negli ultimi giorni, dopo aver visto le foto.
Cioè: perché uscire di casa una mattina alle
3:30, prendere un aereo per Catania, dirigersi sull’Etna,
raggiungere il suo cratere con sci, pelli e ramponi, girare i tacchi e fare
immediatamente il percorso contrario, mettendo piede in casa 22 ore dopo che ti
sei chiuso alle spalle la porta d’ingresso?
Perché?
Beh, io a questa domanda ai
limiti dell’esistenziale ho sempre risposto con un laconico “Perché no?”
Lasciando un po’ interdetti i
miei interlocutori.
Certo, è inutile negare che la
medesima trasferta si sarebbe potuta fare in molti modi differenti.
Con tempi più dilatati
certamente.
Anche più rilassati probabilmente.
Più comodi, volendo.
Tuttavia, nel fare di necessità,
virtù, devo ammettere che non cambierei una sola virgola della splendida
esperienza che abbiamo vissuto.
Ed i motivi sono diversi come
spesso accade.
Voglio dire: le risposte a tutti
questi perché possono essere differenti. E lo sono.
Certo, la gita è di una
suggestione tale da renderle onore difficilmente con le parole:
il cratere fumante,
la neve sotto ai piedi con alle
spalle, il mare, le Eolie, il Continente, persino alcune barche…
e poi, voltando nuovamente il
naso all’insù, uno scenario da esploratore d’altri tempi:
crateri, rocce laviche nere e
taglienti, lapilli, ghiaccio e odore di zolfo.
La verità però è anche un’altra.
Anzi, è soprattutto un’altra.
La risposta a quella domanda. Perché condensare in 22 ore una
cosa del genere.
La mia personale – ed anche un
po’ intima – confessione è che quando il tempo a tua disposizione è limitato,
allora devi ingannare la percezione che hai di lui, se vuoi qualcosa di
speciale.
Devi giocarci, stuzzicarlo e
sfruttarlo in modi non convenzionali, ecco.
Un po’ fuori dagli schemi comuni,
a cui ci abitua il quotidiano.
Una bella avventura, una buona
compagnia e quell’aria frizzante che ti pervade i polmoni sono gli ingredienti
ideali per questa pozione magica. Sono l’alchimia capace di deformare lo spazio
ed il tempo.
Come cantano i Negrita, sono la vita
che entra dentro, sono il fuoco che ti brucia il sangue e sono anima.
In questo modo, quelle 22 ore
trascorse in una dimensione laterale, diventano due giorni, forse tre, o anche quattro.
O ancora, diventano un tempo non
codificato, perché in definitiva, è davvero l’ultima cosa che conta quanto sia
durata.
E questo perché quel vissuto è
inesorabilmente già diventato un’altra parte di te, senza unità di misura a
volerlo quantificare o “perché” a cui dover rispondere.
Perché no. Punto.
Ascolta la puntata del podcast "Passaggi a Nordovest"
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